Premio Letterario Nazionale
“Giuseppe Malattia della Vallata”
XXXIII Edizione
Barcis 6 settembre 2020

 

 

PERCHÉ’ SCRIVERE POESIA IN DIALETTO
di Giacomo Vit

Vorrei proporre ai presenti una breve riflessione incentrata sulla domanda “Perché scrivere oggi poesia in dialetto?” Insomma, perché affidarsi a una parlata materna che ha radici lontane, quando ci troviamo in un mondo globalizzato, aperto a ogni vento culturale, mentre con il dialetto si rischia di rinchiudersi in una specie di riserva indiana? Tanto per cominciare, diciamo subito che il poeta è colui che lavora con le parole. Le parole sono i suoi mattoni, con i quali costruisce l’edificio della poesia. Ma oggi, lo vediamo e sentiamo tutti, quanto quei mattoni sono rovinati, scheggiati, ridotti in polvere. Fuor di metafora, oggi la lingua italiana ha perso molto della sua valenza espressiva. La nostra cara lingua risulta depotenziata, svilita, maltrattata dall’uso aggressivo che ne viene fatto sui social, dalla banalizzazione semantica di certi personaggi politici, dall’uso mercificante che ne fa il mondo pubblicitario … E allora, il povero poeta, sotto questo diluvio linguistico, come si difende? Ci sono due tipologie di poeti che reagiscono creativamente a questa situazione. 1)Il poeta in lingua italiana. Esso deve ridare la giusta taratura alle parole, ridare la forza espressiva in esse contenuta, ritrovarle pure nel caos quotidiano. Un’operazione non molto dissimile da quella che fece Ungaretti, il quale, sotto i bombardamenti, scavò nell’abisso dell’animo per ritrovare la parola in tutta la sua verginità, in tutto il suo vero valore. Non tutti i poeti riescono in questo intento; molti rimangono schiavi di un linguaggio poetico ormai invecchiato, con versi prevedibili, con immagini già lette. I pochi, però, che vi riescono, ottengono risultati eccellenti. Vi farò due soli esempi, due poeti scomparsi del mio Friuli: Mario Benedetti e Pier Luigi Cappello. Mario Benedetti, pur vivendo fuori dal Friuli, scrisse delle poesie che rimandavano alla sua regione, ma con immagini inedite, nuove, con una sintassi molto creativa. Il taglio a volte disorientante, con i paesaggi mostrati sotto una lente deformante, fece così che cose concrete, riconoscibili da parte del lettore, come alberi, case, paesi fossero illuminati da una luce nuova, come per esempio in questi versi:

Come in un volo la corriera mi ha dato lo spiazzo con la facciata.
 Era bello, i calzoni che cadevano larghi sulle scarpe grosse,
 stare in mezzo alle foglie qua e là. 
 Mattine senza sapere di essere in un posto, dentro una vita 
 che sta sempre lì, e ha la fabbrica di alluminio, i campi.
 Si muove il bancone quando si parla, 
 le finestre con i vasi, le tende minutamente ricamate.
 Fuori i cortili corrono piano, le foglie vanno piano sotto le mucche.
 Il cielo gira verso Cividale, gira la bella luce 
 sulle manine che avevamo, che è stata la vita essere vivi così.

 (da Borgo con locanda, Circolo culturale Meduno,2000)

Il secondo è Pierluigi Cappello (valido poeta anche in dialetto). In questa poesia noterete la ricerca della parola giusta, essenziale, ricca di profondità. C’è, sotto l’apparente semplicità, un severo lavoro artigianale sulla lingua, sul ritmo, fino a trovare la forma giusta. 

Qualche volta, piano piano, quando la notte
 si raccoglie sulle nostre fronti e si riempie di silenzio 
 e non c'è più posto per le parole 
 e a poco a poco ci si raddensa una dolcezza intorno 
 come una perla intorno al singolo grano di sabbia,
 una lettera alla volta pronunciamo un nome amato 
 per comporre la sua figura; allora la notte diventa cielo 
 nella nostra bocca, e il nome amato un pane caldo, spezzato.
 
 (da Azzurro elementare, Bur, 2013)

2)Il poeta in dialetto. E’ la lingua materna la seconda strada che porta a scoprire un linguaggio autentico, vero. E’ proprio essa che contiene la “verità” delle cose che vengono nominate. Appartengono alla lingua “prima” le parole con cui il poeta in dialetto cominciò a nominare le cose del mondo, a decifrare la realtà che lo circondava fin da bambino. Faccio un esempio nel mio friulano. Quando scrivo la parola“aga” in un verso, so che quella parola vale più della sua traduzione letterale “acqua”, perché in quell’”aga” io dischiudo tutto un mondo appartenente alla Bassa friulana, fatto di rigagnoli, fiumiciattoli, gorghi, fiumi, laghi, pescatori di fiume, pesci, anguille, esche ecc. Un mio compaesano, (non è un poeta) che aveva costruito la casa vicino al fiume, un giorno mi confidò che se non abitasse accanto al fiume si sentirebbe come privo di un braccio o di una gamba. Questo anche per spiegare la mentalità che può esserci in chi vive in un dato territorio. Si pensi a un’altra parola come la neve, che in friulano diventa “neif”, ed è meno scivolosa della parola italiana, ci suggerisce un senso meno rassicurante, come se il peso della fatica quotidiana si condensasse in quella “neif”, che ci fa facilmente sprofondare. Insomma, il dialetto ci permette di raggiungere anche quella dimensione fonosimbolica che dà uno spessore particolare al testo poetico. Naturalmente, le osservazioni che ho fatto prima su molti poeti in lingua, valgono anche per i poeti in dialetto: non tutti hanno compreso in profondità la valenza espressiva della lingua materna; alcuni si fermano un po’ prima, al di qua del territorio propriamente poetico, restando spesso intrappolati in un linguaggio troppo vernacolare, coloristico, in una parola “troppo tradizionale”. Non basta possedere il lessico, bisogna poi riuscire a trovare il sentiero giusto che porta alla poesia. Diceva Pasolini: “il lessico che adopero è quello di Casarsa, ma la sintassi è mia.” Ecco, in questa formula c’è la poesia.