Alcune considerazioni sulla ventinovesima edizione del Premio
di Giacomo Vit
E’ trascorso un anno dall’ultima edizione del Premio nazionale di poesia “Giuseppe Malattia della Vallata”. Lo sappiamo tutti cosa è passato durante quest’anno: dalla crisi economica che non si arresta più al terrorismo internazionale che ci rende tutti meno sicuri, anche a casa nostra. E poi l’arrivo continuo di disperati che sono costretti ad abbandonare le proprie terre, sperando di non finire in quel grande cimitero che è diventato il mar Mediterraneo.
E la poesia, come reagisce a tutto questo? Si fa contaminare da una realtà così pressante, o tenta di reagire offrendo esempi di bellezza, quasi un antidoto al male del mondo?
Da questa speciale “torre d’avvistamento”, che è ormai diventato il premio poetico di Barcis, con alcune centinaia di partecipanti provenienti da ogni parte d’Italia, è possibile rispondere alla domanda confermando le due opzioni citate.
Ci sono stati parecchi poeti che hanno affrontato le tematiche più angosciose del presente, come, volendo citare dei finalisti, Mauro Barbetti che affronta il dramma delle migrazioni (“Non sono madri a scampo/quelle che traversano/questo braccio di mare”), o Nelvia Di Monte che, adoperando il friulano talvolta contrappuntato dall’inglese, denuncia lo sfruttamento femminile che avviene in tanti paesi del mondo, (“Tal capanon no an polse i dêts-tè /e afârs pai turiscj , pes fantatis dome / orari di mantignî…”// “Nel capannone non hanno sosta le dita: tè / e affari per i turisti, per le ragazze solo / orari da rispettare…”), o Ivan Fedeli , che posa l’occhio sul vivere quotidiano, a suo modo eroico, (“La signora del lunedì prende / le cose del mondo come una mamma / buona. Vorrebbe un futuro per tutti…”) o ancora Ivano Mugnaini che invece cerca nell’immagine espressiva un punto di forza per trattare una realtà non sempre piacevole, metaforizzandola attraverso il linguaggio della cronaca sportiva, (“Davanti a qualche bar / la moviola della vita / diventerà una risata fuori tempo”), o infine Pier Franco Uliana, il quale, col sapiente e raffinato uso della parlata veneta, ci conduce dentro la selva dove si nasconde una pastorale bellezza, simboleggiata dalla cerva che “ co ‘n ùltemo sfòrz / la salta ‘l fil spinà, vers un tènp novo” (“con un ultimo sforzo / salta il filo spinato, verso un tempo nuovo”).